“Maledetta Balena” di Walter Chendi, Tunué Editore

Due storie che percorrono assieme la stessa strada: Maledetta Balena, graphic novel edita da Tunué e realizzata da Walter Chendi, narra le vicende di un protagonista sospeso nel contrappunto temporale fra vecchiaia e giovinezza, insieme alla lotta per la sopravvivenza e alla sconfitta della morte, attraverso un doppio percorso narrativo che riesce a conciliare un’esperienza di lettura intima e personale.

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La copertina del volume edito da Tunué

La prima cosa a cui pensi quando finisci di leggere Maledetta Balena, l’ultima fatica di Walter Chendi, è che vorresti avere a diposizione ancora tante pagine, nella vana speranza di poter continuare quell’immersione fra le sequenze di un fumetto dal forte sapore nostalgico. Il punto, poi, è che si tratta di una storia pure affascinante, che ripaga fino all’ultima pagina le promesse iniziali. Oppure, per dirla più semplicemente, la graphic novel edita da Tunué è bella come potrebbe essere bella una nuova opera di un autore che, fra alti e bassi, attendi da tanto tempo. Dipende dalle tue aspettative: un’attesa che è un’attesa diversa da quella che potresti provare per un fumetto di supereroi o di mostri giganti.

Di solito, si dice che a un certo punto della carriera artistica, i fumettisti autoriali (intesi come autori completi delle loro opere) sentano il bisogno di tornare indietro e riscoprire le radici – anche biografiche –  che hanno formato la propria arte. Forse questa supposizione non sempre trova un’immediata applicazione: ma quello che viene da pensare quando leggi Maledetta Balena, è che l’autore alla riscoperta delle proprie radici abbia proprio deciso di buttarsi a capofitto. E non si tratta necessariamente di un male. Perché in questa storia puoi trovare di tutto: avventura e ricostruzioni storiche, amore e sesso, filosofia e tragedia, sofferenza e malattia ma anche ironia e leggerezza. Potrebbero sembrare ingredienti troppo diversi fra loro se preparati male, ma se c’è un fumettista in grado di cucinare – come Giovanni Dardini, il cuoco protagonista della storia – diverse pietanze con la giusta cottura quello è proprio Walter Chendi.

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Una sequenza del fumetto

Senza contare la qualità dei disegni: ti sembra di averli già visti da qualche parte, di intuirne vagamente lo stile attraverso i dettami di autori del calibro di Vittorio Giardino e Bryan Talbot, ma la verità è che la qualità estetica del lavoro del fumettista triestino (già vincitore nel 2010 del prestigioso premio “Gran Guinigi” con la graphic novel La Porta di Sion) diventa subito un classico istantaneo. Un tratteggio efficace e dettagliato unito a un’attenzione meticolosa per i particolari, in cui non riesci a non riscontare una sorta di allontanamento – rispetto alle altre opere dello stesso Chendi – dalla cosiddetta ligne claire smaccatamente francese.

La sceneggiatura, in tal modo, diventa anch’essa un virtuosismo per nulla gratuito: ogni inquadratura, per quanto possa sembrarti vistosamente sopraffina, è sempre rivolta al servizio narrativo della storia. Le scelte registiche non sono dunque effettuate come mero orpello estetico. Basta dare uno sguardo al doppio binario in cui si dipana la vicenda: il protagonista è Giovanni Dardini, un ottantenne che sta vivendo gli ultimi giorni della sua vita in un letto d’ospedale, dove, in una sospensione onirica ma altrettanto reale, comincia a rivivere i ricordi avventurosi della propria gioventù, durante la seconda guerra mondiale in qualità di cuoco di una nave ospedaliera.

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Una soggettiva del protagonista

Ed è proprio in questo duplice percorso che viene fuori la qualità della sceneggiatura: nei momenti di lucida “vecchiaia”, infatti, la visione della vicenda viene offerta quasi totalmente in soggettiva, costringendo il lettore ad osservare la realtà allo stesso modo in cui la vive il protagonista moribondo. Nel medesimo momento, procedendo nella strada completamente opposta, ecco lo stesso protagonista che diventa “giovane” – nelle sue avventurose vicende durante la guerra –  collocato e inquadrato al centro della scena: non di rado, vieni pertanto proiettato in una ambigua sospensione fra sogno e realtà. La consistenza dei ricordi, tanto per fare un esempio, assume connotati via via più nebulosi, salvo poi ritrovarti con alcuni cerchi rossi disegnati al centro delle vignette e che si fanno di pagina in pagina più consistenti: poi ti svegli dal sogno e scopri che quei maledetti cerchi non sono altro che la luce di una piccola torcia, utilizzata da un infermiere per svegliare il paziente moribondo. Si ritorna dunque alla realtà del letto d’ospedale e alle soggettive del protagonista anziano.

Allucinazioni e deliri, alternati a una verità concreta e tangibile, ci consentono di uscire con lo stesso protagonista in due diversi periodi storici: due realtà che lottano fra di loro per non abbassare mai la guardia, anche se ovviamente finiscono col diventare se stesse di fronte a noi. In conclusione, se proprio vuoi trovargli un piccolo difetto, è innegabile che – per la natura stessa della vicenda – Maledetta Balena abbia alcuni momenti con un andamento un po’ pesante. Ma in altri, brucia con un calore che non riesci a spegnere in nessun modo. Come piccoli cerchi rossi che si insinuano nella tua testa.


Voto: 8,5/10


(Tutti i disegni e le foto che illustrano questo articolo sono 
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Recensione “Astrogamma” di LRNZ, Bao Publishing

Quando uno scenario da fantascienza apocalittica incontra una favola postmoderna: Astrogamma è una graphic novel in cui la lotta tra l’uomo e la natura assume contorni epici e implicazioni filosofiche. Il volume, firmato da LRNZ e edito da Bao Publishing, è il racconto dell’atto finale di un’invasione – da parte di alcuni stormi di insetti giganti – vista attraverso gli occhi di tre ragazzi. Coadiuvato nei dialoghi da Alessandro CaroniLRNZ Lorenzo Ceccotti – è l’autore di questa opera giovanile apparsa originariamente a puntate dal 2006 al 2013 sulla rivista Hobby Comics, periodico a fumetti del collettivo Superamici.

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La copertina del volume edito da Bao Publishing

Qualcuno potrebbe definire Astrogamma come un tokusatsu in chiave romana. E prima di andare a esaminare tale affermazione, bisogna però spendere due righe – per i lettori meno navigati – sul significato di questa parola giapponese: tradotta letteralmente con l’accezione di effetti speciali, è un termine che spesso viene usato per indicare tutta quella serie di film e serie tv nipponiche di genere fantascientifico, fantasy oppure horror riguardante il filone dei cosiddetti kaiju, una tipologia di mostri giganti – Godzilla in primis – tipici della science-fiction del sol levante. Esempi di questo genere possono essere, per intenderci, le famose serie di Ultraman, GanbaronAnimorphis, oppure i recenti film americani come Cloverfield diretto da Matt Reeves e prodotto da J.J. Abrams, oppure Pacific Rim di Guillermo del Toro. Risulta evidente di come una storia realizzata attraverso un linguaggio estetico alla maniera dei disegni – e dei piani di inquadratura – di Astrogamma, che mettono in scena mostruosi insetti giganti, ma anche adolescenti in grado di trasformarsi in enormi guerrieri dotati di armi e poteri, possa apparentemente collocare l’opera di LRNZ nel filone dei tokusatsu. Ma se l’autore originariamente parte dal presupposto fantascientifico dei kaiju giapponesi, il ritmo narrativo – insieme a un intreccio dai contorni epici pregno di suggestioni filosofiche – prende in realtà una strada totalmente diversa dall’impianto introduttivo della storia.

Astrogamma è un fumetto che tratta argomenti come l’evoluzione della specie, la volontà di sopravvivere e l’istinto di conservazione, la fragilità dell’uomo e la furia incontrollabile della natura. Attraverso una messa in opera decisamente sopraffina sotto il profilo dei virtuosismi estetici, il fumettista romano affronta queste tematiche consegnando un resoconto avventuroso carico di adrenalina, brutale, dolente e drammatico, rispetto al quale non è concesso neanche uno sbadiglio nel corso delle sue 150 pagine totali. E mantenere il lettore con il fiato sospeso senza incorrere nell’errore di reiterare soluzioni a effetto, per quasi tutto il racconto, non è sicuramente un risultato scontato.

 

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Una splash page con il protagonista della storia

Come accennato, dunque, sono assolutamente pregevoli gli stilemi utilizzati da LRNZ in questa graphic novel: un impatto visivo caratterizzato da un tratto cinetico e sottile che riesce a far tenere gli occhi incollati sui disegni, dove una serie di splash page concorrono a esasperare – attraverso piani di inquadratura volutamente esagerati nelle prospettive (dall’alto o dal basso) – il senso “vertiginoso” di una fuga furibonda e senza tregua da parte dei protagonisti. Non solo: stilizzazioni di mostri e personaggi, onomatopee che invadono il “campo” di azione delle sequenze, toni di grigio esacerbati e raffinati. Un fumetto che, forse, a chi non possiede gli strumenti conoscitivi, potrebbe sembrare più attento alla superficie che alla sostanza. Anche se, a onor del vero, il piccolo cruccio di quest’opera è proprio rappresentato da alcuni strappi stilistici, sotto il profilo dei disegni, leggermente evidenti; d’altronde potrebbe essere una cosa piuttosto normale tenendo in considerazione che Astrogamma sia stato realizzato – dalla sua prima apparizione del 2006 alla sua ultima del 2013 – in un arco lavorativo di circa sei anni. Rimane comunque immutato il pregio di una composizione che rappresenta un modo per conoscere, da un punto di vista più approfondito, la caratura artistica di LRNZ (e per chi non l’avesse ancora fatto esortiamo a scoprire quel piccolo capolavoro che risponde al nome di Golem, sempre a opera di Ceccotti).

A corredare il tutto, last but not least, nella pregevole veste editoriale realizzata dalla Bao Publishing, il libro si presenta con una suggestiva copertina lenticolare animata in cinque frame. Una eccellente veste “spaccona” – così come definita dallo stesso LRNZ – che i ragazzi di Cliff (questo il nome del cane presente nel logo della testata editoriale) hanno amorevolmente cucito addosso a questo volume.


 

Voto: 8/10


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Recensione Dylan Dog Color Fest N.16

Tre Passi nel Delirio

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La Copertina del Dylan Dog Color Fest N.16 realizzata da Arturo Lauria

Secondo alcuni appassionati di fumetti, gli anni ’90 hanno rappresentato il decennio perfetto, leggendario e irraggiungibile, per quanto riguarda la qualità delle storie di Dylan Dog. Un metro di misura inderogabile – secondo questi avvinti lettori – che non potrà mai essere replicato ciclicamente: per questo motivo, dopo il 1999 può ritornare soltanto il 1990. Stando a questo calendario, l’unico modo per apprezzare ogni nuova storia dovrebbe riportarci indietro almeno di vent’anni: Tiziano Sclavi scrive ancora a pieno regime, mentre il bollino del prezzo di copertina segna 2500 lire.

Un giudizio di questo tipo, volto a esplicitare spudoratamente una personale nostalgia indirizzata al passato, non tiene ovviamente in considerazione tutte quelle storie che – seppur in maniera differente rispetto al cosiddetto “periodo d’oro” del personaggio – sicuramente si contraddistinguono per la loro pregevole fattura. Tre passi nel delirio rientra perfettamente nella casistica. Basti pensare ai nomi coinvolti per la realizzazione di questo Color Fest: tre firme storiche del fumetto underground italiano che, in qualità di autori completi, hanno contribuito con la propria sensibilità a creare tre percorsi artistici differenti e diversi fra di loro.

Si comincia con Francesco Ciampi (noto con il nome Ausonia, autore di almeno un paio di capolavori come Interni e ABC) e la prima storia dai connotati apparentemente esoterici intitolata Sir Bone – Abiti su Misura. Si prosegue con Marco Galli (al secolo Kazzemberg, di cui si consiglia la lettura delle graphic novel Nero Petrolio e Oceania Boulevard) e il demone in sovrappeso nel secondo racconto Grick Grick. Si conclude con Gabriele Di Benedetto (conosciuto come Aka B, fumettista, pittore e videoartista di cui si rimanda ai bellissimi disegni di POP! Vite ascensoriali e Biblioteca Onirica) insieme alla sua personale interpretazione, nella terza e ultima storia, di una delle innumerevoli fobie di cui soffre Dylan Dog: Claustrophopia. Da non dimenticare il disegnatore scelto per la copertina, il bravissimo Arturo Lauria noto come Moloch.

Tre passi nel delirio rappresenta dunque un approccio d’autore che invece di scegliersi una strada, unica e rassicurante per il lettore, preferisce percorrerne varie e tutte assieme, finendo per dare un’impronta artistica e provocatoria che rimodella i canoni classici del personaggio creato da Tiziano Sclavi, senza tuttavia tradire la sua struttura fondante, ma anche le sue innumerevoli sfaccettature; contribuendo, anzi, a rilanciarne il mito – e la forza evocativa – con un approccio narrativo completamente differente rispetto alle normali uscite a cadenza mensile.

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Una sequenza di Sir Bone – Abiti su Misura, la storia realizzata da Ausonia

Sotto tale aspetto, nel proseguo di questo avvicendamento artistico, si potrebbe analizzare il pretesto esoterico utilizzato nella prima storia firmata da Ausonia, dove l’autore offre un divertissement sulla classica “divisa” di Dylan Dog composta da camicia rossa, giacca nera, jeans e scarpe Clarks. Gli indumenti, in questo caso, si trasformano in carne e pelle umana, quasi a voler iconizzare lo stile e l’estetica del personaggio; lanciando al contempo una frecciata ai lettori appartenenti alla “vecchia guardia” di cui si è parlato all’inizio di questo articolo: Dylan Dog deve sapersi rinnovare pur restando fedele alle proprie caratteristiche. Ma per riappropriarsi del suo ruolo di metafora e osservatore dell’orrore quotidiano, non può rimanere per sempre cristallizzato in un’epoca come quella – appunto – degli anni ‘90. Per quanto sia doloroso dover tradire le proprie nostalgie, il lettore dovrà per forza di cose accettare questo cambiamento di pelle. A rafforzare tale ipotesi concorre l’impianto dei disegni dove Ausonia, attraverso una patina di matita nera sulle tavole, conferisce un aspetto generale nello stile di alcuni film della belle époque. Senza trascurare i tratteggi del personaggio, nel vago dettame del pittore Egon Schiele, in una sorta di ipotetico rimando ad alcune vecchie interpretazioni grafiche di Angelo Stano, storico disegnatore e copertinista della testata.

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Tavola tratta da Grick Grick, a opera di Marco Galli

La seconda vicenda, Grick Grick, firmata da Marco Galli segue invece una strada completamente differente, salvo poi rafforzare – in egual misura – l’iconizzazione del personaggio attraverso una visione artistica. Nello specifico, lo stile utilizzato mostra unasceneggiatura densa di primi piani e sequenze mute, insieme a un Dylan disegnato esplicitamente in maniera diversa rispetto ai canoni: magrissimo e con le fossette alle guance, a fare da contraltare all’altro personaggio della vicenda, un demone in sovrappeso stabilitosi a Craven Road, che turberà la convivenza fra il nostro protagonista e la sua nuova fidanzata. Gennie, questo il nome della controparte femminile, è una ragazza con atteggiamenti di pensiero aderenti al politically correct e – a detta dello stesso Dylan Dog – schierata dalla parte dei «deboli per aiutare gli oppressi». La presenza di Grick (l’onomatopea indica il costante digrignare dei denti di questa creatura) metterà in crisi i suoi fondamenti. Ed è proprio in questo bizzarro trittico, che si potrebbe inserire quel discorso sui lettori insoddisfatti dal nuovo corso editoriale: emblematica, sotto questo punto di vista, la presenza di uno smartphone usato da Gennie per scattare alcuni selfie con il demone obeso. Non a caso, infatti, lo smartphone è quell’oggetto che i lettori “talebani” non hanno mai accettato all’interno della recente svolta editoriale: come se Dylan Dog avesse abbandonato il suo di atteggiamento politically correct, cedendo al “demone” della tecnologia moderna. Gli stessi lettori che perciò incarnano le contraddizioni di Genny, utilizzando un cellulare di ultima generazione nelle loro vite quotidiane, salvo poi attaccare un personaggio che – nelle loro nostalgie – dovrebbe restare fedele a se stesso rasentando il paradossale: un fumetto ambientato nel 2016, con il protagonista che compie le inchieste investigative dentro una vecchia biblioteca polverosa, piuttosto che utilizzare magari un motore di ricerca come Google.

Claustrophobia

Una serie di inquadrature di Claustrophobia, realizzata da Aka B

Terza e ultima storia, Claustrophobia, a chiudere l’ipotetico cerchio di provocazione artistica. Il tema, come indicato dal titolo, racconta – tra le innumerevoli “debolezze” dell’Indagatore dell’Incubo – l’irrazionale fobia degli spazi stretti. Decisamente spettacolare, nella gestione grafica delle tavole, il tratto utilizzato da Aka B volto ad esasperare la condizione e il senso di ansia del protagonista rinchiuso in fondo a un pozzo; grazie anche al dosaggio di alcune inquadrature dal basso nell’impianto di una sceneggiatura decisamente efficace sotto il profilo dei piani. Anche in questo caso, ovviamente, quest’ultimo racconto concorre in quel processo di mitizzazione del personaggio, offrendo al tempo stesso una chiave di lettura provocatoria. L’esempio più lampante è sicuramente rappresentato dalla splah page riempita con i nomi delle fidanzate storiche di Dylan Dog, dove quest’ultimo – impossibilitato a uscire da una situazione di stallo – si ritrova a meditare sulla propria condizione. Continua, a volerlo forzare, il gioco fra le righe relativo ai lettori nostalgici bloccati in quel periodo – gli anni ’90 – non più riproponibile nelle nuove avventure del personaggio: «Solo attesa. Sempre nello stesso punto. Immobile. In assenza di tutto. Ho letto che si può vivere sette giorni senza cibo – afferma Dylan Dog – e neanche uno senza storie. Abbiamo bisogno di racconti per vivere».

Apostrofando le parole della scrittrice statunitense Joan Didion, ci raccontiamo delle storie per vivere, restituendo all’autoinganno una sua dimensione profondamente umana. Forse, molto più semplicemente, le storie che ci raccontiamo sono le storie che definiscono le potenzialità della nostra esistenza. I tre passi nel delirio, anzi nel mito di Dylan Dog, sono perfettamente riusciti.


Voto: 8,5/10


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Martin Mystère: Fuori Tempo!

Per Giove! Il volume Fuori Tempo, edito da Sergio Bonelli Editore, raccoglie – per la prima volta – tutte le stravaganti avventure di Martin Mystère ambientate in epoche diverse dalla nostra. Una serie di irresistibili storie in cui il Detective dell’Impossibile viene calato negli anni Trenta del Novecento, ma anche nell’Ottocento di fine secolo, sino a giungere ad alcune futuristiche e imprevedibili ambientazioni. Le storie sono scritte dal creatore del personaggio, il maestro Alfredo Castelli, coadiuvato dal talento grafico di uno di quei disegnatori maggiormente apprezzato dai lettori, Giancarlo Alessandrini, insieme alle firme più prestigiose di tutta la saga.

Copertina Volume Bonelli

Copertina del volume da libreria “Fuori Tempo!”  (Disegno di Lucio Filippucci)

Fuori dal tempo, dentro ai personaggi.

Alzi la mano chi non si ricorda, nelle proprie letture infantili, il periodico a fumetti I grandi classici Disney, in cui i personaggi vengono proiettati in diversi ruoli – rispetto alle loro “ordinarie” avventure – omaggiando più o meno esplicitamente i grandi capolavori della letteratura. Una in particolare, nelle memorie d’infanzia, è rappresentata da I promessi paperi, realizzata da Edoardo Segantini e Giulio Chierchini, parodia de I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Esempio perfetto di come le mille sfaccettature disneyane riescano a muoversi perfettamente fra gli archetipi manzoniani, senza perdere la riconoscibilità dei personaggi: Paperino resta il solito burbero sgangherato, Gastone sempre baciato dalla fortuna, Zio Paperone tirchio e avaro, e via discorrendo. L’approccio a questa particolare rivisitazione presuppone tre tecniche differenti: la prima consiste nel proiettare i characters nella struttura narrativa dell’epopea originale attraverso un pretesto narrativo (Ad esempio, in Paperino Don Chisciotte il personaggio inventato da Carl Barks giunge nelle vicende di Cervantes attraverso l’ipnosi); la seconda, invece, porta l’opera originaria nell’ambientazione “ordinaria” dei personaggi (la storia, per intenderci, è ambientata a Topolinia o Paperopoli); nel terzo caso, infine, si agisce – sin dall’inizio della parodia – nell’ambientazione originale, senza dare una spiegazione al perché i personaggi si trovino in quel determinato contesto: è il caso, appunto, de I Promessi Paperi.

Ora, dopo il lungo panegirico introduttivo (trattare gli argomenti in maniera approfondita è caratteristica fondamentale di chi legge Martin Mystère), quello che avviene nel volume Fuori Tempo! è precisamente il terzo caso fra quelli poc’anzi elencati. Come spiegato nella bella introduzione che accompagna il libro, firmata da Luca Barbieri, quando il personaggio di un fumetto riesce a privarsi dei connotati che hanno contribuito a crearne il successo, senza perdere il suo cosiddetto “marchio di fabbrica”, e senza che i fruitori di una storia sentano il bisogno di chiarimenti, significa che la sua immagine è talmente impressa nella mente dei lettori da non aver bisogno di fornire alcuna spiegazione. Ed è così che troviamo il nostro Detective dell’Impossibile perfettamente calato negli anni ’30 insieme alla procace e divertentissima Angie, l’assistente neanderthaliano Java costretto a sopportare le lunghe e dotte disquisizioni di Martin Mystère, la gelosissima fidanzata Diana Lombard e l’acerrimo nemico di sempre Sergej Orloff, con l’ispettore Travis che sostituisce la “is” finale in “y” per omaggiare il fumetto Dick Tracy creato da Chester Gould.

Anni30

Copertina Martin Mystère Numero 320 (Disegno di Giancarlo Alessandrini)

Anni ’30. 

La prima delle quattro opere che compongono questo imperdibile volume, è uscita originariamente in edicola nel 2012 per celebrare il trentennale del personaggio creato da Castelli nel lontano 1982. Intitolato Anni ’30 per indicare la doppia valenza sia di albo celebrativo, ma anche di avventura “sui generis” ambientata appunto negli anni ‘30 del Novecento, con l’esperimento di collocare i personaggi in una diversa epoca temporale anziché ai nostri giorni come di consueto.

Diversi e differenti sono i punti di forza di questa – a parer di chi scrive – irresistibile e spassosa avventura: il personaggio di Angie, apparso per la prima volta nello Speciale Il cobra d’oro del 1985, sembra esser stato creato appositamente per questa ambientazione.  Con la sua presenza in scena, complice la maestria di Castelli nel gestire la reiterazione delle gag più esilaranti, il divertimento è davvero assicurato. Per non parlare, in seguito, di tutte le citazioni presenti nella storia: troviamo il romanzo di Dashiell Hammett Il Falco Maltese e il successivo film ad esso ispirato con protagonista Humphrey Bogart; fino ad arrivare alla nostra Angie nelle vesti di Marilyn Monroe in A qualcuno piace caldo. E le citazioni potrebbero continuare a lungo, ma – non a caso – proprio alla fine di ogni storia è presente una ricca appendice curata dallo stesso Castelli, in cui vengono descritte le varie fonti d’ispirazione e le citazioni più importanti.

Last but not least, un discorso a parte e un applauso a scena aperta sono da dedicare al talento indiscusso del disegnatore Giancarlo Alessandrini. Il modo in cui riesce a tratteggiare le espressioni di Martin Mystère & C. rinforza in maniera decisa e convincente la comicità espressa dai personaggi. Anche le ambientazioni, insieme ad alcune spettacolari panoramiche “vintage”, rendono i disegni una vera e propria festa per gli occhi. Ma la bravura e il talento dell’artista marchigiano non sono di certo una novità, per chi mastica fumetti Bonelli da tempo immemore: oltre a curare le copertine del BVZM (Buon Vecchio Zio Marty, affettuoso nomignolo dato dai lettori) dal 1982, Alessandrini si è anche cimentato con due numeri “Giganti” di Tex e Dylan Dog, offrendo una prova superlativa e “mostruosa” (nel senso positivo del termine), rispettando pienamente i canoni estetici dei due differenti personaggi e offrendo al tempo stesso la propria visione autoriale.

L'impero Sottomarino

Copertina “Almanacco del Mistero” 2014 (Disegno di Aldo Di Gennaro e Giancarlo Alessandrini)

L’impero sottomarino.

Nella seconda storia, le avventure proseguono esattamente dove sono state lasciate alla fine di Anni ‘30 e sono ambientate in una sorta di transatlantico che ricorda molto da vicino il Titanic, per poi proseguire all’interno della città sommersa di Atlantide. In questo vicenda troviamo anche la famigerata base di “Altrove” ben nota ai lettori bonelliani di vecchio corso: una base segreta governativa fondata da Benjamin Franklin e Thomas Jefferson nel  XVIII secolo. La peculiarità di “Altrove” risiede nel fatto che essa sia stata trasferita trasversalmente in fumetti ambientati in diverse epoche: è possibile trovarla nel western fantastico di Zagor, nella fantascienza di Nathan Never, oppure nel presente di Dylan Dog.

Nell’avventura in questione, ecco comparire gli altri personaggi della saga del BVZM come Chris Tower e Max Brody, trattati ovviamente con un approccio  decisamente ironico rispetto agli albi “normali” della saga. Si ripetono poi i meccanismi, con la minaccia del solito Sergej Orloff a cui i nostri eroi dovranno fare da contraltare, sempre nel rispetto del percorso sui generis effettuato in queste avventure “Fuori Tempo”. Per quanto riguarda le citazioni, si rimanda all’accurata appendice presente nel volume: in questa sede, ci limitiamo a menzionare i divertenti omaggi ai fumetti Mandrake di Lee Falk e Flash Gordon di Alex Raymond.

Saturno Contro la terra

Copertina “Almanacco del Mistero” 2015 (Disegno di Lucio Filippucci e Giancarlo Alessandrini)

Saturno contro la terra.

Una delle intuizioni maggiormente efficaci di questa terza storia è sicuramente rappresentata dalla presenza del personaggio di Orton Whales, chiaramente ispirato al regista Orson Welles, autore di quel capolavoro cinematografico che risponde al nome di Quarto Potere. Nella nostra fattispecie, il pretesto è quello di raccontare un differente punto di vista sull’ormai celebre sceneggiato radiofonico, La Guerra dei Mondi, mandato in onda dal regista americano nel 1938. Quel che è successo è ben noto: diversi spettatori, durante la diretta, si sono lasciati andare ad alcune scene di panico credendo veramente alla possibilità di un’invasione aliena. Ed è così che da questa vicenda realmente accaduta, prendono il via tutti i divertissement legati ai personaggi di Alfredo Castelli, riallacciando perfettamente le tematiche trattate nell’introduzione di questo articolo: Martin Mystère & Friends nonostante siano completamente snaturati dalla loro “ordinaria” collocazione, riescono a mantenere saldamente le loro componenti principali insieme alla loro perfetta riconoscibilità, rimanendo sempre fedeli a se stessi e al loro carattere.

Lo spettro della luce

Copertina Martin Mystère Numero 200 (Disegno di Giancarlo Alessandrini)

Lo spettro della luce.

Dopo tre storie lunghe, quest’ultima rappresenta una serie di racconti brevi ambientati ovviamente “Fuori Tempo”, e usciti originariamente nel numero 200 di Martin Mystère (1998). Alla loro realizzazione hanno contribuito quattro autori diversi: il solito Giancarlo Alessandrini che ha illustrato anche il raccordo fra le diverse mini-storie, Lucio Filippucci, Rodolfo Torti, Franco Devescovi; alla sceneggiatura del primo mini-racconto, assieme a Castelli, ha collaborato Vincenzo Beretta. Ogni storia è realizzata graficamente con uno stile diverso, per meglio rendere l’atmosfera dell’epoca in cui essa si svolge: da sottolineare la pregevole colorazione delle tavole. Nella prima avventura troviamo una suggestiva e coinvolgente “mezzatinta”. Proseguiamo poi con l’ambientazione illustrata da Filippucci, con toni ocra e grigi come le vecchie istantanee polaroid; mentre in quella successiva, realizzata da Torti, c’è un utilizzo di alcuni “retini larghi” per omaggiare i fumetti degli anni ’30. Infine, particolarmente sorprendente, è l’uso di alcuni stereogrammi nell’ultimo racconto, utilizzati anche per svelare la soluzione finale del caso.

Diavoli dell’inferno!

Eccoci giunti alla fine di questo lungo e spero non troppo estenuante excursus. D’altronde, essere profondamente logorroici è un difetto che l’autore di queste righe condivide con il nostro/vostro Martin Mystère. A presto risentirci sulle pagine di Fumetto Magazine.


Voto: 8/10


(Tutti i disegni e le foto che illustrano questo articolo sono 
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Speciale Dampyr

PREVIEW Dampyr - I misteri di Praga«Franz Kafka amava scrivere di notte nella sua minuscola casetta al n.22 del Vicolo D’Oro, al Castello, e poi aprire la porta direttamente  sulla stradina buia, silenziosa e innevata, per uscire incontro ai suoi sogni. In un famoso libro di Gustav Janouch, Colloqui con Kafka, Franz, a proposito del successo de Il Golem, dice che Meyrink è riuscito a rendere l’atmosfera arcana e perduta del vecchio ghetto ebraico raso al suolo dal risanamento edilizio del primo Novecento, e aggiunge: “Dentro di noi vivono ancora gli angoli bui, i passaggi misteriosi, le finestre cieche, i sudici cortili, le bettole rumorose e le locande chiuse… Svegli, camminiamo in un sogno: fantasmi noi stessi di tempi passati.”  Questa celebre citazione esprime al meglio la condizione del chodec, il viandante praghese, e di chi, sfuggendo i luoghi turistici, ama perdersi nella magia di una Praga tenebrosa, incantata, onirica, ancora abitata dai suoi personaggi, dalle sue figure e dai suoi artisti.»

Il precedente brano è tratto dalla prefazione de I Misteri di Praga, volume edito dalla Sergio Bonelli Editore, in libreria a partire dal 25 Febbraio. In occasione dell’evento, Fumetto Magazine, da sempre fan della saga di Dampyr, non poteva esimersi dal dedicare un articolo a Harlan Draka e a tutti i personaggi creati da Mauro Boselli e Maurizio Colombo.

La sospensione dell’incredulità

Il concetto di “sospensione del dubbio” – coniato per la prima volta dallo scrittore Samuel Taylor Coleridge – consiste nella volontà, da parte di un lettore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le cosiddette incongruenze secondarie e di godere appieno dell’opera di fantasia. In pratica, viene stipulato una sorta di tacito accordo tra scrittore e lettore, affinché quest’ultimo sospenda la propria incredulità per usufruire degli espedienti narrativi presenti in una storia, un racconto o un romanzo. Quello che avviene in Dampyr, è il tentativo di limare al massimo tali incongruenze, nonostante la maggior parte degli ingredienti narrativi siano declinati dentro un fumetto horror, in cui non mancano le contaminazioni fantasy.  Il protagonista, Harlan, è figlio di una donna e di un vampiro – Draka –, anzi a esser precisi di un Maestro della Notte; mentre i suoi compagni sono un ex soldato di ventura, Kurjiak; insieme a Tesla, una graziosa “non-morta” ispirata alle fattezze di Annie Lennox (nota cantante degli Eurythmics) con il bisogno di nutrirsi di sangue umano per sopravvivere.

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Ora, la domanda che potrebbe sorgere è la seguente: come si riesce a connettere un’impronta “realistica” all’interno di una saga a fumetti dichiaratamente horror? Mauro Boselli – curatore editoriale, oltre che di Dampyr, anche di Tex – ha avuto l’idea di rivestire la serie con almeno un paio di intuizioni. La prima risiede nel fatto di aver inserito la narrazione all’interno di un contesto attuale e reale: in ogni storia sono assolutamente precisi i riferimenti storici e geografici. Tutti gli eventi (o quasi, a parte la saga del Multiverso su cui torneremo fra poco) hanno una precisa collocazione nel nostro mondo, a differenza ad esempio di alcuni “colleghi” Bonelli, come Dylan Dog o Martin Mystère, in cui l’illusione della realtà a volte è sovvertita ai fini della storia. In Dampyr questo non avviene: come ha spiegato l’autore Boselli in alcune sue interviste, se in Dylan Dog è legittimo che nella città di Londra possano avvenire cataclismi, apocalissi zombie o quant’altro, in Dampyr non è possibile. Se nella serie avviene un’inondazione, questa deve essere accaduta realmente e deve avere anche un preciso riferimento storico. Ad esempio, una delle idee della saga è stata quella di trattare alcuni conflitti moderni spesso trascurati dal grande pubblico: nel numero 14 – tanto per citarne uno – troviamo una storia ambientata in Cecenia, così come nel numero 40 nell’Angola insanguinata dalla guerra civile. E le tematiche sulla guerra non sono le uniche problematiche a esser state trattate fra le pagine di Dampyr: nel numero 155 i personaggi si spostano nella cosiddetta Zona Rossa di L’Aquila dopo il tremendo terremoto che ha investito la città e i suoi abitanti.

Prologo -

Questa dovizia di particolari storico-sociali su vicende realmente accadute, è una delle peculiarità di questa serie. Ma non solo, perché proprio all’interno di questo realismo storico e geografico che si collocano – sul versante opposto – le fondamenta di tutta la saga, costruite sull’antropologia culturale e sul folklore popolare, insieme a tutti quegli ingredienti fantastici tipici della letteratura horror, senza dimenticare le dotte e interessanti incursioni nei mondi letterari di alcuni scrittori; come nel recente numero 188 collocato nella città immaginaria di Carcosa, inventata dal celebre scrittore fantastico Ambros Pierce e fonte di ispirazione di Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovercraft.

 

Intrecci e personaggi

Quel che risulta scontato, da un approccio di questo tipo, è un esito che mette la serie di Dampyr in contrasto con tutte le derive del suo genere letterario: i vampiri non sono gotici e romanzati come nei libri di Ann Rice (Intervista col Vampiro), né tantomeno edulcorati e sdolcinati come i pessimi – a parer di chi scrive – Twilight e compagnia bella.

Ma ritorniamo ai personaggi, appena accennati in fase di apertura di questo Speciale. Abbiamo Harlan Draka, un “Dampyr” cacciatore di vampiri: è da notare come per la prima volta, in un fumetto Bonelli, il titolo della serie non corrisponde al nome del protagonista. I comprimari sono due personaggi dalla forte ambiguità: il soldato di ventura Kurjiak e la vampira Tesla. Procedendo casualmente nell’ordine degli “alleati”, un altro dei principali personaggi – dal nome Caleb Lost – è un Camael della razza degli Amesha, esseri di luce su cui si basa la nascita della leggenda degli angeli: nella serie questo comprimario viene raffigurato con le fattezze del marziano di David Bowie. Troviamo poi Nikolaus, un demone facente parte della Squadra del male: sebbene egli sia formalmente un nemico di Caleb Lost, in realtà nella serie diventa amico di Harlan e dei suoi compagni. Questo particolare personaggio è in grado di evocare degli spock, particolari proiezioni di personaggi defunti: uno dei suoi migliori amici è proprio lo scrittore Gustav Meyerink, autore di quel capolavoro letterario che risponde al nome di Golem. Ci sono poi ovviamente i principali antagonisti, impossibili da citare tutti in questa sede, per via di una serratissima e longeva continuity: da Gorka a Grigor Vurdalak, da Jan Vathek a Mordha, fino al Duca Nergal e a Draka, padre di Harlan il protagonista.

Caleb Lost e Nikolaus

Da sottolineare che i vari Maestri della Notte, poc’anzi elencati, non sono dei semplici vampiri nella loro accezione classica: alcuni di essi sono membri di una sorta di alleanza infernale che lotta contro la razza degli Amesha per il dominio del cosiddetto “Multiverso“. Ma non è tutto, dal momento che bisogna evidenziare un possibile equivoco di fondo: la contrapposizione tra il bene e il male non è basata sulla religione! Questi personaggi sono stati resi funzionali – in qualità di archetipi antagonisti  – come membri di alcune etnie aliene: sembrano angeli e demoni ma in realtà non lo sono, possono crearsi una schiera di “non-morti” ma non sono dei vampiri. Potrebbe sembrare un controsenso, ma l’invito che facciamo è quello di scoprire qualche albo della serie per capire bene questo meccanismo.

TeslaInfine, concludendo in maniera estremamente sintetica la foltissima galleria dei personaggi, non resta altro da fare che un brevissimo cenno ad alcune controparti femminili di questa affascinante saga a fumetti: personaggi con cui il protagonista, Harlan, ha intrattenuto delle relazioni più o meno brevi e che ritornano spesso all’interno della serie. Cominciamo da Lisa, il vero grande amore del nostro Dampyr, giovane afflitta da una malattia che la condanna a continue visioni e a un invecchiamento precoce. C’è poi Hanneke, poliziotta belga. Troviamo così Eiseth Zenumium, demonessa e potente strega. Arriviamo dunque a Ann Jurging, potentissima medium ultrasettantenne ringiovanita in uno sfasamento temporale. Senza dimenticare Amber Tremayne, sorella di Draka e zia di Harlan, maestra della notte e sacerdotessa celtica: grazie a questo personaggio, l’autore Boselli è riuscito ad allargare i confini storici della sua serie nell’Antica Britannia, fra il Quarto e il Quinto Secolo.

I Misteri di Praga

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Inutile nascondere che il grande fascino di questa serie risiede nella sua ambientazione principale: la città di Praga. Anche se lo scenario cambia spesso, di albo in albo, la capitale della Repubblica Ceca è il luogo dove il Dampyr e i suoi alleati hanno scelto di collocare il loro quartier generale. Nella Praga immaginata da Boselli, passato e presente vengono mischiati a seconda della tipologia di una storia. Può succedere, in tal modo, che il vecchio Ghetto ebraico – parzialmente distrutto alla fine dell’Ottocento – riprenda improvvisamente vita tra le sequenze del fumetto. In questo senso, Praga assume una dimensione a tratti onirica e surreale, ma anche fascinosamente malinconica nelle sue panoramiche notturne, travolgente e ammaliante nelle stradine e nei vicoli innevati, cogliendo in pieno alcune suggestioni letterarie di Kafka, insieme ai percorsi immaginari del sopracitato Meyrink.

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Senza ovviamente tralasciare la puntigliosa ricostruzione geografica e storica di cui abbiamo parlato in apertura. Ed è cosi che l’immaginario Teatro dei Passi Perduti – base di Caleb Lost – viene collocato in un preciso luogo della città realmente esistente: l’isola di Kampa. La Biblioteca di Harlan, invece, si trova esattamente nella zona di Nerudova Ulice mentre, sempre non distante dal Ponte Carlo, ecco uscir fuori la bottega antiquaria di Nikolaus in Via Husova. Sempre da quelle parti, poi, prendono consistenza tra le pagine di Dampyr le stradine che portano al Castello di Praga nel quartiere Hradčany, adiacente a quello più famoso di Malá Strana: tra i sobborghi del “Piccolo Quartiere” (questa la traduzione letterale) si scorge inoltre – con precisissima documentazione da parte dei disegnatori – tutto quel fiorire di antiche case e di palazzi in stile barocco, insieme alla piazza Malostranská Námestí  dominata dalla Chiesa di San Nicola. Per ultimi ma non per ordine di importanza, ricordiamo infine la birreria fantasma dell’Aquila Verde e la Strada Perduta di Verlorene Gasse.

Concludiamo questo breve excursus dedicato a Dampyr e alla sua città, con le parole dello scrittore decadente Jiří Karásek, autore del romanzo Un’anima gotica ambientato durante i suoi vagabondaggi nella capitale ceca, sempre tratte dal volume I Misteri di Praga edito dalla SBE:

«Praga è impregnata di passato. Si erge davanti a voi da ogni parte. Soffia su di voi dall’ombra verdognola di profondi giardini con alberi frondosi. Vi avviluppa da un buio portale, dal fondo dell’àndito di un palazzo. Vi trovate in una vetusta città che conserva l’anima dei suoi antichi abitanti…».


 

(Tutti i disegni e le foto che illustrano questo articolo sono 
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Speciale Cybersix

 

cybersix02“Viviamo in un mondo governato da finzioni di tutti i tipi: la produzione di massa, la pubblicità, la traduzione istantanea della scienza e della tecnologia nell’immaginario popolare. Ogni volta è meno indispensabile che lo scrittore inventi un contenuto fittizio. La finzione è già qui. Compito dello scrittore è inventare la realtà.”

Il precedente brano è tratto dal prologo di Crash, romanzo di fantascienza postmoderna dello scrittore inglese J. G. Ballard, da cui il regista David Cronenberg ha tratto l’omonimo film con protagonista James Spader. Lo spunto per citare questi due piccoli capolavori è offerto dal fumetto Cybersix, creato dalla penna di Carlos Trillo, uno degli sceneggiatori più geniali della cosiddetta historieta – il fumetto argentino – coadiuvato nei disegni dal connazionale Carlos Meglia.

Cybercultura argentina

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Una vecchia copertina di Skorpio, con protagonista Cybersix e il suo alter-ego Adrian. Disegno di Carlos Meglia.

Pubblicato inizialmente a puntate negli anni ’90 sul settimanale Skorpio, storica rivista della casa editrice Eura (adesso diventata Aurea), il personaggio Cybersix – in seguito ad un inaspettato successo – è presto diventato una collana a fumetti con cadenza mensile nelle edicole. Il fascino della protagonista, la decadenza di alcuni scenari postmoderni e metropolitani, i dilemmi interiori del personaggio – donna non umana creata in laboratorio – insieme ai riferimenti letterari ispirati allo scrittore portoghese Fernando Pessoa; hanno fatto diventare questo fumetto un vero e proprio cult. Sicuramente uno dei pochi prodotti da edicola, in grado di poter competere con Dylan Dog, Tex, e tutte le maggiori produzioni Bonelli di quel periodo.

Il creatore, come accennato poc’anzi, è il compianto maestro Carlos Trillo, prolifico fumettista argentino e ideatore di una serie di personaggi che hanno lasciato un’impronta profonda, nell’immaginario del fumetto seriale di quegli anni: Loco Chavez, Chiara di Notte, Borderline, Spaghetti Bros e Robin delle Stelle, soltanto per citarne alcuni.

I disegni sono realizzati invece da Carlos Meglia, uno dei tratti più raffinati, ma al tempo stesso caricaturali, che in quegli anni muove i propri passi nella città argentina di Quilmes, prima di trasferirsi in Spagna alcuni anni prima della sua morte.

Tematiche, intrecci e personaggi

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Sono diverse e interessanti le suggestioni di questa saga: lo sceneggiatore Trillo ha anticipato alcune di quelle tematiche che a tutt’oggi sono di stringente attualità. Tra le pagine del fumetto vengono affrontate alcune questioni decisamente all’avanguardia, considerando il periodo di uscita del fumetto: l’ingegneria genetica, la fecondazione assistita, lo sfruttamento della prostituzione, il traffico di organi. Per non parlare di tutte quelle contraddizioni, molto lontane dal politically correct – ma allo stesso tempo trattate con incredibile sensibilità -, legate ad alcuni personaggi dalla forte ambiguità erotica. La protagonista è un’eroina ribelle, frutto di un esperimento genetico della serie “Cyber“, una generazione di cinquemila individui creati in laboratorio: unica superstite, riesce a sfuggire allo sterminio di tutta la serie Cyber (lei è appunto Six, la numero 6) e a ribellarsi al suo creatore – lo spietato Von Richter -, nascondendosi sotto le mentite spoglie di un uomo, il professore universitario Adrian Seidelman (ed è qui che entra in gioco il sottile filo di ambiguità di tutto il personaggio). Lo scenario è caratterizzato dalla postmoderna città di Meridiana, dove la protagonista è obbligata a nutrirsi – per non morire – della cosiddetta “sostanza” che circola nelle vene di tutte le creature geneticamente create in laboratorio.

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Copertina N.6 – Disegno di Carlos Meglia

Le contraddizioni e i sentimenti di una donna costretta a celarsi sotto l’aspetto di un uomo, insieme all’impossibilità di unirsi a Lucas Amato, giornalista di cui è innamorata, compongono le variegate sfaccettature del personaggio. Un eroe femminile in conflitto con il proprio alter-ego maschile timido e impacciato. Un protagonista che riesce ad essere uomo e donna nello stesso tempo: è fumetto action nelle scene maggiormente adrenaliniche, grazie alla perfetta regia e ai magistrali piani di inquadratura partoriti da Trillo e Meglia; mentre in egual misura, riesce a trasformarsi in fumetto colto ed erudito nell’esatto momento in cui la nostra eroina veste i panni del professor Seidelman, attraverso i versi filosofici di Pessoa, le metamorfosi kafkiane, la letteratura del “caos” in stile Dostoevskij, le reminiscenze surreali nella contrapposizione tra uomo e realtà di J. G. Ballard.

Un amalgama di contaminazioni in cui Trillo sembra muoversi con estrema naturalezza. L’epopea dei personaggi è infatti caratterizzata da una fortissima vena ironica, che rende irresistibile la lettura di alcune pagine decisamente ispirate. Basti pensare a tutta la composizione degli archetipi antagonisti, a volte connotati come innocue “macchiette” prive di un reale pericolo; come ad esempio le “Creature”, una sorta di fantascientifici sgherri manzoniani al servizio incondizionato del folle Von Richter, scienziato geniale e al tempo stesso perfido e sgangherato.

Stile e influenze

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Copertina N.1 Disegno di Carlos Meglia

Uno degli aspetti più affascinanti di questa saga, è la sua capacità di saper variare nello stile dei disegni, grazie alle innumerevoli influenze artistiche presenti nelle tavole. In questo senso, i due autori hanno avuto l’intuizione di collocare all’interno della storia – in mezzo alla già variegata casistica dei protagonisti – il fumettista giapponese Miao Hashimoto: grazie all’utilizzo di questo antagonista, si è potuto creare l’interessante pretesto di innalzare le vicende sopra un livello squisitamente “metafumettistico”. Non di rado, capita infatti di vedere il personaggio inventato Hashimoto trasformarsi in una sorta di alter-ego degli autori “reali” Trillo e Meglia: ed è così che i disegnatori chiamati ad affiancare il progetto, colgono l’opportunità di rappresentare graficamente la serie seguendo i dettami di un diverso segno stilistico.

In basso viene mostrata una carrellata dei differenti approcci autoriali presenti in una storia: tutti i disegni sotto riprodotti sono realizzati dal grande fumettista argentino Felix Saborido, chiamato ad affiancare il disegnatore Carlos Meglia nella realizzazione di alcuni albi. La sequenza è tratta dallo storico Numero 1 della serie regolare mensile, intitolato “Fantastica Creatura nella Notte“. In questa storia, accennando brevemente la trama, il personaggio Miao Hashimoto immagina di creare una serie a fumetti dedicata alla sua amata Cybersix (ricordate il discorso sulla meta narrazione di cui abbiamo parlato prima?), ispirandosi ai grandi maestri del fumetto internazionale. Il risultato finale è rappresentato graficamente da sei splash page consecutive: niente male per un fumetto da edicola degli anni ’90.

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Carlos Meglia

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Milton Caniff

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Hugo Pratt

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Solano Lopez

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Carl Barks

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Sotto ogni tavola, è inserita l’influenza stilistica dei diversi maestri del fumetto, nella composizione grafica delle sequenze realizzate e disegnate da Felix Saborido.


 

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Recensione “The Graveyard Book” di Neil Gaiman

24111592219Uno dei modi migliori per entrare nel favolistico e oscuro mondo di “The Graveyard Book”, è quello di coglierne l’impatto estetico attraverso le sopraffine introduzioni disegnate che accompagnano l’ingresso ai capitoli della storia. Di sicuro, la graphic novel edita da NPE Edizioni – Nicola Pesce Editore –, è un appuntamento imperdibile per tutti gli amanti delle fiabe gotiche ad ampio respiro letterario. Finalmente arrivata in Italia, essa rappresenta il primo adattamento a fumetti dell’omonimo romanzo scritto da Neil Gaiman e diventato best-seller nel 2009 grazie al primo posto nella classifica americana per dieci settimane, insieme al riconoscimento del prestigiosissimo “Hugo Award”. La sua trasposizione a fumetti, per la prima volta raccolta in un unico volume grazie al lavoro della NPE, è sceneggiata e adattata da Philip Craig Russell, insieme ad un cast di disegnatori “stellari” che si sono suddivisi il compito di realizzare graficamente gli otto capitoli di cui è composto il volume.

La storia.

Di primo acchito, potrebbe risultare un’ardua impresa spiegare in poche righe in cosa consista questa superba graphic novel: volendo accennare una breve sinossi, si tratta della storia di un ragazzo – Nobody Owens detto “Bod” – la cui famiglia è stata sterminata in tenerissima età da un killer professionista noto come “Jack del Mazzo” e appartenente ad un’antica confraternita di alchimisti. Basterebbero questi brevi cenni per poter già immaginare una trama avvincente; ma la brillante intuizione dell’autore risiede nel fatto che all’inizio della vicenda il protagonista, rimasto orfano, viene adottato e cresciuto dai fantasmi che vivono in un cimitero. Parte infatti con questo proposito l’idea originaria del romanzo di Gaiman, nel voler realizzare una sorta di Libro della Giungla” in chiave gotica, mantenendo intatte alcune analogie con l’opera di Rudyard Kipling.

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La trasposizione a fumetti.

Seguendo una logica che analizza i dettagli della trasposizione visuale, la graphic novel presenta la stessa suddivisone in otto capitoli, ognuno ambientato a circa due anni di distanza dal precedente, all’interno dei quali si svolge un mini-ciclo narrativo in cui vengono raccontate le varie disavventure del protagonista, insieme ai diversi comprimari che compongono la variegata e bizzarra “bibbia dei personaggi” presenti nella storia. Dal punto di vista della sceneggiatura, inoltre, l’autore Russel riesce a mantenere integra la straordinaria umanità di quei personaggi sfaccettati da macabre componenti caratteriali. Anzi, si potrebbe affermare che nella trasposizione viene effettuato un passo successivo, nel senso che l’apporto grafico dei disegni riesce a definire maggiormente quell’incerto vagare filosofico tra la vita e la morte, che è stato alla base del successo nell’opera letteraria di Gaiman. L’impatto estetico infatti – a parer di chi scrive – è incredibilmente pregevole, dal momento che ogni capitolo è illustrato singolarmente da alcuni maestri del fumetto internazionale: da Kevin Nolan a Tony Harris, da Scott Hampton a Jill Thompson, senza dimenticare Galen Showman, Stephen Scott e David Lafuente. Un amalgama di stili e di diverse influenze pittoriche che rendono il prodotto finale una vera e propria festa per gli occhi. Basti pensare, tanto per fare un esempio, al bellissimo terzo capitolo “I Segugi di Dio” in cui il protagonista scopre un varco verso il mondo dei Ghoul, entità malefiche soprannaturali che al tempo stesso si presentano come sarcastici interlocutori, quasi a voler fare una sorta di citazione a “La Ricerca Onirica dello Sconosciuto Kadath” di lovecraftiana memoria. Ma non solo, perché restando nel tema della trasposizione grafica, il fumetto riesce a toccare delle sublimi vette estetiche. Ad esempio, nella fase iniziale del terzo capitolo, i disegni tendono ad avere un tratto per così dire “normale”, mentre avviene esattamente il contrario nel momento in cui Nobody scopre la cripta dei Ghoul varcando nel loro mondo, dove protagonista e comprimari cominciano ad assumere un aspetto via via più “stilizzato”. Frutto del lavoro di Tony Harris e di Scott Hampton questo è forse – a nostro giudizio – uno dei migliori capitoli sotto il piano dei disegni: è proprio in questa parte dell’opera che in alcune tavole si resta quasi attoniti di fronte alla fattura estetica di alcuni primi piani, insieme alla fantasiosa inventiva nelle panoramiche utilizzate, dimostrando che spesso la qualità estetica di un fumetto non deve essere per forza la più realistica possibile per rappresentare uno stile artistico di pregevole caratura.

Punti di forza e punti di debolezza.

Le soluzioni visuali adattate, lo stile dei disegni, i piani di inquadratura, le ambientazioni e le caratterizzazioni dei personaggi rappresentano sicuramente un punto a favore per la graphic novel. La suddivisone in diversi cicli narrativi consente inoltre di dare ampio respiro alla storia, allungandone di conseguenza il tempo di lettura grazie all’indubbia qualità dei dialoghi e della sceneggiatura, che consentono al tempo stesso di restare ammaliati dalla peculiarità delle tavole. Ovviamente, ciò potrebbe rappresentare un punto a sfavore per chi volesse orientarsi su un tipo di narrazione maggiormente veloce e dinamica, da leggere e scoprire “tutta d’un fiato”. Il ritmo narrativo, infatti, si focalizza e rallenta sui personaggi, ma d’altronde non potrebbe essere altrimenti vista la natura filosofica della storia unita ad un incedere sospeso tra il gotico e il macabro, dettato anche dall’utilizzo di diversi talenti artistici al servizio di una uniforme componente visuale dal punto di vista del layout.

Traduzione, lettering e colori.

Last but not least, una menzione di merito va assegnata all’imponente opera di traduzione effettuata da Nicola Pesce e Andrea Plazzi, insieme al raffinato lavoro di lettering ad opera di Giorgio Carta e Alessio D’Uva, i quali hanno adottato virtuosamente stili e “font” presenti nella storia. Infine, i colori di Lover Kindzierski ad impregnare maestosamente le ambientazioni gotiche, notturne e non, di luoghi e personaggi.


Voto: 8,5/10


 

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Lezione di fumetto N.2

Dall’idea alla stesura iniziale del soggetto

Fermi tutti! Se vi siete persi la prima lezione, il consiglio è quello di non proseguire nella lettura di questo articolo: avere familiarità con l’intero processo di realizzazione di un fumetto è una componente assolutamente essenziale per capirne bene meccanismi e dinamiche. Vi consiglio pertanto di fare un rapido e veloce ripasso, cliccando sul seguente link Lezione di fumetto N.1 , per rileggere lo step iniziale di questa prima – e mi auguro lunga –  serie di lezioni che vi terrà compagnia sulle pagine di questo blog.

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“John Doe” di Roberto Recchioni e Lorenzo Bartoli. Disegno di Davide De Cubellis


Come sempre, nel realizzare queste righe non c’è nessuna pretesa di volersi sostituire a un’analisi professionale e a uno studio approfondito sulla materia; cercherò tuttavia di rendere maggiormente comprensibili le dinamiche più importanti nel flusso compositivo di un fumetto, ma anche di indirizzare il lettore – attraverso mirati riferimenti bibliografici – verso una disamina sicuramente più dettagliata degli argomenti trattati su queste pagine.

Fatte dunque le dovute precisazioni, andiamo ad analizzare l’argomento principale di questa seconda lezione: la stesura del soggetto.

L’idea

Un momento di inaspettato e folgorante genio creativo? O magari il risultato di ore e ore di letture e visioni ispiratrici? Una buona idea rappresenta la fase più importante nella prima elaborazione di una trama: sicuramente il nucleo centrale attraverso il quale costruire e sviluppare una storia. Ma non è tutto, perché l’idea potrebbe anche derivare dalla cosiddetta “cultura generale”, ossia da tutto il background personale che ogni aspirante autore dovrebbe possedere in quella sorta di mix tra osservazione, informazione e documentazione che si va a inserire in una specie di archivio mentale definito – dagli addetti ai lavori (nello specifico dal maestro Alfredo Castelli, autore di Martin Mystère) – come “Biblioteca di Babele”. L’idea, dunque, può essere considerata come quel tipo di spunto, o di “scintilla”, da cui far partire la narrazione; non ha un consolidato e riconosciuto “stile” di stesura come il soggetto o la sceneggiatura, ma piuttosto si tratta di una concatenazione logica di pensieri. Il compito di uno sceneggiatore consiste in tal senso nel trasformare, o meglio costruire, queste idee fino a farle diventare un racconto contenente tutte le variabili narrative della vicenda: ossia il soggetto (su cui torneremo fra poco).

Ovviamente, esistono diversi metodi per provare a innescare questa “scintilla”: trovare spunti significa innanzitutto cercare di tenere sempre aggiornata la famigerata “Biblioteca di Babele” di cui si è parlato poc’anzi. Leggere e rileggere libri e fumetti, guardare e riguardare film e serie televisive, finanche sfogliare riviste e articoli di giornale: in pratica, gettare sempre acqua su quel fiume di ispirazioni che confluisce e indirizza il verso di una storia. In tal senso, un aiuto potrebbe anche derivare da un approccio maggiormente “mirato”, come il ricorso all’utilizzo dei cosiddetti sistemi “meccanici”, che consistono nell’induzione forzata di un’idea. Ne esistono vari esempi (vi rimando alla bibliografia per una disamina approfondita): aprire un libro qualsiasi e farsi ispirare da una frase letta a caso; prendere un fatto di cronaca reale e ribaltarlo chiedendosi “cosa sarebbe successo se”; ispirarsi a un film inventando un nuovo finale e reinventando successivamente inizio e sottotrame; mescolare due o più racconti e crearne uno solo.

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“Martin Mystère” di Alfredo Castelli. Disegno di Giancarlo Alessandrini

Detto questo, non bisogna dimenticare di evidenziare uno degli errori più grossolani nella progettazione di una storia: ossia tentare di adattare le proprie idee ad un fumetto seriale già esistente senza conoscerne le caratteristiche. Sarebbe alquanto rischioso (e pretenzioso), pensare di volersi proporre per una testata a fumetti senza essere aderenti allo spirito di un personaggio e dei suoi comprimari.  Prima di ipotizzare qualsiasi tipo di spunto, è dunque opportuno aver letto almeno una cinquantina di albi di una determinata serie: maggiore è la conoscenza di un personaggio, minori sono i rischi di produrre un qualcosa di poco coerente.

Infine, prima di passare al soggetto vero e proprio, una piccola precisazione riguardo al genere e al tono di un fumetto seriale. Per quanto riguarda il primo bisogna conoscerne perfettamente (e senza sbavatura alcuna!) meccanismi narrativi e archetipi: trattare un determinato prodotto editoriale senza avere una cognizione approfondita del genere narrativo entro cui si muove, è sicuramente una scelta azzardata. Per quanto riguarda invece il secondo caso, evitare di utilizzare un tono che rischi di non essere appropriato (Esempio: un linguaggio ironico in una serie cupa e realista).

Il soggetto

Definita l’ispirazione e messo in sacco lo spunto, si arriva alla stesura vera e propria del soggetto: questa è la fase in cui bisogna convertire l’idea in una storia!

Ma come si scrive? Qual è lo stile da utilizzare? Innanzitutto bisogna tenere a mente che il soggetto va redatto al presente (non al passato remoto, come in un racconto); risulta poi opportuno indicare i cosiddetti “stacchi”, ossia i cambiamenti di tempo e luogo, spiegando con chiarezza i passaggi narrativi. Per ciò che concerne la lunghezza, il soggetto varia da due fino a dieci/quindici cartelle (una cartella è composta approssimativamente da 1800 battute). Non occorre un particolare stile letterario: il soggetto non è un racconto! L’importante è che siano chiari intreccio e concatenazione di eventi, senza accumulare elementi che rischierebbero di rendere caotica la storia. Nella fase di stesura del soggetto, inoltre, non è previsto l’uso dei dialoghi fra i personaggi. In sostanza, si potrebbe affermare che il soggetto sia una sorta di riassunto della storia, ma allo stesso tempo un’esposizione di tutti gli ingranaggi di cui è composta. Tutto deve esser chiaro: dai personaggi alle motivazioni che spingono il protagonista a sostenere una “prova”, fino alle dinamiche degli antagonisti e a tutto ciò che impedisce all’eroe di portare a compimento un’impresa (su queste specifiche torneremo nella prossima lezione).

Definire dunque in maniera concreta il modo in cui deve essere redatto un soggetto, risulta imprescindibile per continuare nell’analisi di questa prima fase. Adesso, occorre metterne a “nudo” la struttura egli schemi narrativi, anche se in realtà un vero e proprio sistema consolidato non esiste. Tradizione vuole – come schema classico – di rifarsi alla descrizione di Wilson R. Thornley nel suo volume Short Story Writing:

  • SCENE INIZIALI

A1) Protagonista;

B1) Sue caratteristiche;

C1) Personaggi di contorno;

D1) Problema;

E1) Soluzione più probabile o appariscente;

F1) Contrasti con la soluzione più appariscente

  • SCENE CENTRALI

A2) Interferenze;

B2) Altre soluzioni appariscenti;

C2) Altre interferenze;

D2) Soluzione definitiva

  • SCENE FINALI

A3) Risultato della soluzione definitiva;

B3) Risposte a tutti gli interrogativi non ancora risolti

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“Tex” di Gianluigi Bonelli. Disegno di Aurelio Galleppini

Ora, per tastare con mano gli elementi di questa analisi, non rimane che provare a adattare questo schema a un qualsiasi tipo di narrazione: in linea di massima, ogni storia può essere ricondotta a questa “semplificazione”; il protagonista è chiamato o coinvolto a risolvere un problema, seguendo o facendosi trasportare in un determinato percorso, incontrando interruzioni e/o ostacoli di qualsiasi natura fino a quando il problema non è risolto. Ovviamente si tratta di una estremizzazione, dal momento che esistono degli schemi fissi assai più precisi di questa classificazione generica. Nella prossima lezione vedremo come viene sviluppata, in tal senso, la cosiddetta “struttura ternaria” del racconto in Incipit, Corpo e Desinit. Per il momento, giusto per completare concretamente questa “grezza” infarinatura sulla composizione del soggetto, occorre invece soffermarsi sugli elementi che non possono mancare in ogni buona storia. Stiamo parlando di un altro grande classico, delle regole espresse dallo scrittore Rudyard Kipling, riassumibili in cinque punti: le celeberrime “5 W”.

  1. WHO: “Chi?” (I personaggi)
  2. WHERE: “Dove?” (L’ambientazione)
  3. WHEN: “Quando?” (Il tempo)
  4. WHAT: “Cosa?” (L’oggetto della narrazione)
  5. WHY: “Perché” (Le motivazioni)

Un buon soggetto deve sempre rispondere a questi cinque quesiti!

Per quanto riguarda poi – nello specifico – la stesura di un soggetto per un fumetto seriale, bisogna accostare anche un altro parametro: il “COME?” (Il modo). In pratica, per spiegare questo criterio, si potrebbe prendere ad esempio la composizione di un prodotto editoriale longevo e duraturo nel tempo (esempio: Tex). In questo caso, alla fine della storia – o di un ciclo di storie – il successo del protagonista è sempre dato per scontato. Bisogna quindi sottolineare il modo in cui l’eroe riesce a ottenere il successo: il “Come” diventa una variabile per mettere in risalto le caratteristiche di un personaggio amato dal pubblico, e rendere di conseguenza più interessante la vicenda.

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“Sin City” di Frank Miller


Siamo giunti alla conclusione di questa prima parte dedicata alla stesura di un soggetto, ma gli strumenti sono ancora ben lontani dall’essere definiti: nella prossima lezione verranno analizzati Incipit, Corpo e Desinit; si vedrà inoltre come le casistiche finora presentate possono essere smontate e rimontate per rendere più “accattivante” una trama (nello specifico, parleremo degli Intrecci narrativi e delle sottotrame, ma anche di tutta quella serie di “ausili” come il flashback e il flashforward). Analizzeremo poi il Climax (la scena che decide il destino di una storia), e le varie caratterizzazioni di protagonisti e comprimari nella cosiddetta “Bibbia dei Personaggi”: sapevate, ad esempio, che la spalla del cattivo – vice antagonista – in gergo viene definita “rat”?

Questa e altre curiosità vi aspettano nella prossima lezione. 

Last but not least, una serie di interessanti link, a cura di alcuni professionisti del settore, per approfondire nello specifico le tematiche trattate in questa lezione:

Alfredo Castelli, “Come si diventa autore di Fumetti”.

http://www.afnews.info/wordpress/speciali/propage/comesidiventaautoredifumetti

Roberto Recchioni, “Di che parliamo quando parliamo di fumetti?”.

http://prontoallaresa.blogspot.it/2016/01/chiacchiere-sullo-scrivere-fumetti-e.html

(Prima parte)

http://prontoallaresa.blogspot.it/2016/01/di-che-parliamo-quando-parliamo-di.html

(Seconda parte)

Paolo Paliaga, “Diabolik e sceneggiatura in tre atti”.

http://cinemalab.altervista.org/diabolik-e-sceneggiatura-3-atti

Moreno Burattini, “Piccoli Consigli”.

https://www.ubcfumetti.com/darkwood/consigli.htm

Bibliografia:

Corso di Fumetto Disney. “Disegnare, scrivere, raccontare”. De Agostini Publishing. Edizione speciale su licenza del Corriere della Sera. Volumi 3 – 6 – 9 – 14. (2011)

Scrivere. “Tecniche e percorsi per chi ama raccontare”. A cura di Massimo Birattari. Fabbri Publishing a cura di RCS libri. Volumi 22 e 23. (2014)

“Praticamente fumetti”. A cura di Laura Scarpa. Editore Mare Nero. Collana “Pop Arts” (2001)

“Tito Faraci per scrivere fumetti. Teorie e tecniche”. A cura di Davide Barzi. Coniglio Editore. (2004)

Pensare il fumetto. “Manuale pratico di sceneggiatura”. A cura di Bruno Concina. Trentini Editore. Collana “I liberi”. (1999)

Dylan Dog

“Dylan Dog” di Tiziano Sclavi. Disegno di Angelo Stano


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Recensione “La leggenda di Capo Horn”, Volume 1

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“Stretto di Gibilterra. Undicesimo giorno di navigazione. Le rotte di decine di navi si intersecano tra loro come i fili di lana di un gomitolo. La nebbia come una coperta avvolge ma non protegge. E noi siamo in quel gomitolo. Tutto è immobile. Non ci sono punti di riferimento. Non ci sono luci. Trenta occhi a guardare nel nulla. Ma è solo questione di attimi, perché spesso è proprio dal nulla che comincia tutto.”

Dal diario di bordo di Neil Jarnigan emerge, quasi come fosse nebbia, il racconto di una vicissitudine dalle classiche tinte marinaresche. La prima graphic novel pubblicata dalla casa editrice Nutrimenti si colloca perfettamente nel filone di quelle avventure leggendarie dedicate al mare, fonte di ispirazione tanto di Herman Melville, quanto di Joseph Conrad, Ernest Hemingway o Jack London.

Gli autori.

La sceneggiatura è affidata a Luca Celoria, autore televisivo e qui al suo esordio nel mondo dei comics. Ha scritto le Sitcom Camera Cafè, Piloti e Colpi di sole. I disegni, invece, sono assegnati al talento di Salvo Carramusa, character designer e storyboard artist: il suo primo lavoro a fumetti è la graphic novel Derrum. Infine, i colori sono realizzati da Maurilia Moscarelli, compositor, animator 2D e designer.

La storia.

In questo primo volume de “La Leggenda di Capo Horn” vengono narrate le avventure di un terzetto di ragazzi, senza alcuna esperienza di bordo, che per raggiungere San Francisco si imbarca da Marsiglia nel 1914 a bordo della Funny Lady, un gigantesco veliero che trasporta merci circumnavigando l’America del Sud attraverso il leggendario passaggio di Capo Horn. Il vascello, come spesso succede in quegli anni, viene “stivato a dovere” prima della partenza, nel senso che gli armatori costringono il Comandante a far caricare la barca oltre la soglia consentita: uno stratagemma che permette, in caso di affondamento, di scaricare le colpe sul comandante stesso. Con queste premesse, comincia a dipanarsi la storia focalizzandosi in particolare sui tre giovani membri dell’equipaggio mentre, nello stesso momento, alcuni componenti della brigata si preparano a compiere un ammutinamento durante la navigazione.

Sceneggiatura.

Per quanto riguarda l’approccio alla sceneggiatura, bisogna fare un distinguo fra le trovate più interessanti rispetto e quelle leggermente meno argute. In questo senso, un punto a favore per la storia scritta da Luca Celoria è sicuramente rappresentato dalla forma del diario di bordo, utilizzato dal protagonista per raccontare le vicende: sotto questo punto di vista, l’effetto che ne consegue è ovviamente quello di creare maggiore empatia con il personaggio. Riguardo ai dialoghi, la gestione della comicità e il ritmo delle battute è piuttosto brillante: la caratterizzazione dei comprimari è talmente variegata che consente di godere appieno anche dello scambio culturale che avviene fra i diversi componenti dell’equipaggio. A onor del vero, a volte l’effetto di alcune sequenze risulta lievemente didascalico; soprattutto in quei contesti in cui vengono spiegati alcuni termini “di bordo” in maniera un po’ troppo approfondita (ad esempio quando viene spiegato come effettuare il nodo della corda gassa d’amante). A ogni modo, in alcuni casi può rivelarsi piacevole scoprire termini e usi specifici prettamente marinareschi.

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In merito alla gestione dei piani d’inquadratura, il formato di “regia” è abbastanza classico e senza eccessivi virtuosismi, con i protagonisti spesso al centro dell’inquadratura e raramente in tre quarti o di spalle. Tuttavia, riscontriamo ugualmente la presenza di un paio di notevoli sequenze: ad esempio a pagina 57 con due belle inquadrature dal basso, insieme alla doppia vignetta iniziale a pagina 58. Anche il formato della gabbia è piuttosto standard: non mancano – comunque – due ottime splash page: la prima a pagina 18 con un’affascinante panoramica, la seconda a pagina 43 focalizzata sul dettaglio di uno screamshow, un dente di capodoglio dove è incisa la vicenda – realmente accaduta – della baleniera Essex. Sempre continuando ad analizzare la gabbia, da sottolineare la buona fattura estetica di alcune onomatopee che fuoriescono dai bordi delle vignette (pagina 54).

Disegni e colori.

Sotto il profilo della visualizzazione estetica, personaggi e comprimari sono perfettamente definiti e delineati da Salvo Carramusa; così come tutta la raffigurazione del veliero, da cui si evince un’accurata e precisa documentazione. Numerose sono le sequenze ben rappresentate graficamente, come il passaggio dello Stretto di Gibilterra (pagina 22/23), ma anche i vari fenomeni climatici che, di volta in volta, i membri dell’equipaggio sono costretti ad affrontare: sia che si tratti di bonaccia oppure di tempesta, la messa in opera finale è suggestiva. In questo senso, sono ben calibrati i colori di Maurilia Moscarelli, nella gestione delle parti bianche così come nell’utilizzo di alcuni chiaroscuri uniti al blu (pagina 54). Infine, la tipologia di colorazione che impregna le tavole aiuta a conferire, in ottica generale, il classico effetto da film d’animazione.


Voto: 7/10


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“Wheeling” di Hugo Pratt

Wheeling e Leggende indiane: la visione di un’epopea

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La copertina dell’edizione Rizzoli-Lizard

Una delle questioni più annose, tra appassionati e storici del fumetto, è quella relativa alla nascita delle graphic novel. La diffusione in Italia dei romanzi grafici – per usare la traduzione letterale – si potrebbe collocare a cavallo tra anni Ottanta e Novanta con la pubblicazione dei volumi Maus di Art Spiegelman e La forza della vita di Will Eisner. Il clamoroso successo di entrambe le storie, da quel momento in poi, ha innescato la corsa degli editori per pubblicare questa specifica forma di racconto a fumetti. Bisogna però fare un passo, anzi svariati passi indietro nel collocare con precisione la nascita dei primi romanzi a fumetti. Seguendo un percorso rivolto al passato, sarebbe invece del 1978 – secondo buona parte della critica – il primo romanzo a fumetti della storia: Contratto con Dio di Will Eisner. Ma può essere smentita questa tesi? Perché a ben vedere, in Italia, già da alcuni anni antecedenti a quella data, sono cominciate alcune pubblicazioni che – per tipologia – si collocherebbero nella cerchia delle graphic novel: nel 1969, ad esempio, viene pubblicato Poema a fumetti di Dino Buzzati; mentre è del 1967 l’ormai celebre prima avventura di Corto Maltese Una ballata del mare salato firmata da Hugo Pratt; senza dimenticare – restando nell’ambito del fumetto popolare – la collana a fumetti introdotta dalla Sergio Bonelli Editore, a partire dagli anni Settanta, con il ciclo di storie Un uomo un’avventuraInfine, giusto per concludere questa puntualizzazione cronologica, risale al lontano 1962 la prima pubblicazione di Wheeling – ancor prima di Corto Maltese -, il romanzo di formazione di Pratt, il quale, non caso, ha coniato il termine di “letteratura disegnata” per definire la sua visione del fumetto.

Spazio e tempo

Quando si parla di Hugo Pratt, esiste sempre il pericolo di incorrere in cose già dette e ripetute fino alla nausea. Eppure, non bisognerebbe mai stancarsi di ricordare quanto importante sia stata la sua impronta autoriale all’interno dell’arte sequenziale (per par condicio, quest’ultima definizione è invece di Will Eisner).

“Spazio e tempo, che poi sono la stessa cosa…” afferma Corto Maltese nell’avventura Una ballata del mare salato. Non potrebbe esserci definizione migliore, per circoscrivere la sequenza temporale di un fumetto, dove lo spazio tra una vignetta e l’altra rappresenta concretamente un passaggio temporale. Mettere una vignetta sopra o sotto, a destra o a sinistra, significa attribuire agli eventi un determinato valore temporale. Lo sa bene Pratt, maestro indiscusso nella gestione delle sequenze, sin dai tempi delle sue primissime opere, in qualità di autore completo, come Anna nella Jungla e, appunto, Wheeling.

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Una sequenza di Wheeling

L’Avventura con la “A” Maiuscola

Amore e amicizie, guerra e avventure, il Mito della frontiera americana e gli Indiani del West: indiscutibilmente Wheeling è un grandioso romanzo storico. Esso è composto da mille sfaccettature, che si confrontano in una complessa e sterminata prateria di eventi e personaggi. Una saga in cui si comincia a respirare l’impronta di quei grandi scrittori che non abbandonerà mai la filosofia, ma anche l’approccio di base, con cui Pratt ha sancito alcuni anni dopo il successo di Corto Maltese: la prosa potente di Jack London, l’impronta giornalistica di Ernest Hemingway, la denuncia verso la guerra di Joseph Conrad, il respiro dell’avventura e le contraddizioni psicologiche di Robert Louis Stevenson. Ma non soltanto, perché Wheeling è soprattutto una spassionata dichiarazione d’amore nei confronti dell’epopea americana del West: un lavoro durato una vita intera, dal momento che Pratt ha scritto la prima saga negli anni ’60, aggiungendone e completandone una terza a pochi mesi dalla sua morte.

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Acquerello di Hugo Pratt

In ogni pagina, è sopraffino il lavoro dell’artista romagnolo: dallo stile grafico che cambia notevolmente da una saga all’altra, pur mantenendo sempre intatta la sua straordinaria capacità espressiva, fino al lirismo epico e letterario con cui Pratt arricchisce – come sempre – dialoghi e didascalie.

La filosofia di fondo, ovviamente, è la stessa che contraddistingue la maggiore parte della produzione prattiana: la visione negativa della guerra, intesa come una madre spietata e feroce che abbraccia e contamina la natura dell’essere umano. Il papà di Corto Maltese ne descrive gli orrori e le ingiustizie subendone al tempo stesso, però, il fascino romanzesco che da essa ne consegue. La guerra, in Wheeling, mette in luce la natura contraddittoria dell’uomo. E il carisma dei personaggi risiede proprio in queste mille sfaccettature.

Leggende indiane

Nell’edizione Rizzoli-Lizard, consigliatissima, a corredare il tutto c’è anche una piccola gemma, ossia Le Leggende Indiane. Si tratta di alcune storielle che raccontano miti e leggende dei nativi americani. Un ciclo di vicende brevi in cui, nell’arco di poche pagine, Pratt racconta con il suo stile – utilizzando anche una buona dose di ironia – alcune vicissitudini legate ai costumi e alla civiltà dei pellerossa. I disegni, e la conseguente documentazione grafica sui vari ornamenti indiani, sono un qualcosa di incredibilmente pregevole; senza dimenticare la consueta galleria di acquerelli a chiusura delle ultime pagine, testimonianza e patrimonio indiscusso del talento pittorico di Hugo Pratt.


Voto: 9,5/10


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